La cronaca sanitaria post-covid sta mettendo in evidenza un problema dalle origini non proprio recenti ma che ha raggiunto ormai livelli insostenibili. Il fenomeno dei medici gettonisti – che lavorano in ospedale da liberi professionisti con paghe orarie elevatissime – ha messo in crisi diverse aziende sanitarie. La causa sembra la grande carenza di personale medico in particolare nei reparti di terapia intensiva e pronto soccorso dovuta al fatto che non si trovano medici da assumere e i concorsi risultano deserti o con numero di partecipanti inferiori ai posti da coprire.
In realtà questa più che la causa è il risultato di una serie di fattori o concause che si protraggono da anni e in alcuni casi decenni, quindi ampiamente prevedibili e riparabili ma per le quali nessuno si è mai veramente interessato o non ha mai voluto schierarsi contro corporazioni che hanno sempre mostrato gli artigli ogni qual volta si è accennato a un disegno o proposta che prefigurasse un risparmio numerico sul personale medico.
Come risultato oggi vediamo una vera e propria speculazione ai danni del SSN con personaggi che lavorano anche a 1000 km da casa con paghe orarie tra gli 80 e i 110 euro e con turni che arrivano in casi estremi a 72 ore consecutive. In questo modo hanno la possibilità di guadagnare come un dipendente con solo 48 ore di lavoro. Tutto in spregio a quanto previsto dal Dlgs 66/2003 che prevede il tetto massimo di 48 ore settimanali di lavoro “a qualunque titolo prestate“, al quale è stata data attuazione solo nel 2015 e da allora viene ignorato da tutti, ispettorato del lavoro compreso. Di frequente i gettonisti sono ex dipendenti del SSN passati al regime privato proprio per approfittare dell’indubbio vantaggio economico. Solo pochi giorni fa ANAC ha sollecitato l’intervento del Ministero a fronte di numerose richieste pervenute dalle Aziende Sanitarie facendo notare come non esista alcun quadro normativo certo, che possa indicare come procedere con tali assunzioni “a ore”, con quali limiti, entro quali prezzi, con che tipo di durata giornaliera.
Cito alcuni di questi fattori – i principali – che in combinazione hanno innescato la situazione attuale: il numero chiuso o comunque la scarsità di posti nei corsi di laurea in medicina e chirurgia, la cattiva gestione delle borse di specializzazione con la concentrazione di posti in specialità dove c’è meno carenza o non c’è proprio carenza, il mantenimento di presidi di pronto soccorso – dove stranamente non c’è carenza – con dati di accesso bassissimi e relativamente vicini ad altri e infine l’inefficace organizzazione della medicina territoriale che porta molti pazienti a rivolgersi ai PS impropriamente. Su quest’ultimo punto sicuramente la corretta attuazione del DM 71/2022 del quale ho già esaminato alcuni aspetti (LEGGI) porterà dei risultati ma i tempi sono lunghi e i risultati legati alle modalità con cui le regioni ne daranno attuazione.
Un fattore che ha sempre dato fastidio e del quale – per ovvi motivi – non si sente più parlare è quello della mancata definizione delle specializzazioni infermieristiche come originariamente previsto e più volte oggetto di proposte di riforma. Per chi vuole approfondire rimando ad un articolo del 2016 sull’argomento pubblicato su Nurse24 (Prospettive di riforma della Laurea Magistrale). Le lauree specialistiche infermieristiche aprirebbero infatti ad una differente organizzazione di alcuni servizi che libererebbe medici e contemporaneamente aumenterebbe il numero di prestazioni erogate. Solo per citare un esempio estero, cosa che non faccio spesso perchè gli esempi vanno poi contestualizzati, il Regno Unito prevede per gli ambulatori di diabetologia sia ambulatori medici che infermieristici. I primi si occupano di definire la diagnosi e seguire i pazienti nelle prime fasi o in caso di criticità sopraggiunte mentre i secondi delle visite periodiche di controllo.
Va tenuto presente che attualmente siamo in quella che molti definiscono “bolla medica” prevista dagli stessi sindacati medici da diversi anni. Si tratta di quella condizione dove le cessazioni superano sempre più di numero non solo i neo-laureati, ma addirittura i posti disponibili nelle università e l’inasprimento di questo gap proseguirà almeno fino al 2025. È chiaro quindi che se anche domani venisse abolito il numero chiuso nei corsi di laurea in medicina a invarianza di altri fattori come quelli elencati ma anche altri – vedi il costante invecchiamento della popolazione – non vedremo risultati almeno fino al 2030. Tutto ammesso che le università facciano il pienone e siano in grado di gestirlo.
Uscire da questo pantano non è semplice e rimedi rapidi come il prospettato tetto massimo delle retribuzioni possono solo tamponare l’emorragia senza arrestarla completamente visto che i medici continueranno ad andare in pensione, a trasferirsi all’estero o a lavorare privatamente fuori dal SSN. La risposta può venire solo tra anni ma se oggi si riorganizza tutto il sistema, dalla programmazione universitaria per i medici, alla specializzazione degli infermieri. Dalla riorganizzazione della medicina territoriale (appena e parzialmente iniziata) a quella delle reti ospedaliere e dei DEU. Senza un complesso insieme di riforme, pur volendo evitare la privatizzazione del sistema, continueremo a vedere gettonisti, cooperative, srl, che continueranno a speculare sul SSN indebolendolo costantemente.